Artisti Vari – Ius Soli. Voci e Canti per l’Italia futura

È un modo per dare conto del fatto che le classi popolari della città di Roma hanno una composizione diversa da quella tradizionale. Una fondamentale contraddizione sociale oggi è data dalla presenza rifiutata ed emarginata dell’emigrazione e dal rifiuto di riconoscere come parte della nostra società i ragazzini che nascono qui da genitori immigrati. La musica popolare è quella che esprime questa contraddizione. I CD di questa collana propongono musica tutta al di sotto dei radar del mondo dell’industria musicale.
Fare sentire attraverso le voci dei bambini o le voci degli adulti che cantano ai bambini o per i bambini, il processo di formazione della nuova Italia per rendere il disco uno strumento di pedagogia interculturale. Andando avanti nella ricerca e nel confronto ci siamo resi conto che la questione principale era più profonda: cosa diciamo quando diciamo “Italia”, come riconosciamo le persone che in Italia vivono e vivranno negli anni a seguire?
Perché dobbiamo accettare il fatto che se la musica italiana è la musica si fa in Italia, in questo momento si fa anche questa musica qui. E poi diciamolo francamente, prendere atto di un’esperienza interessante che non è direttamente legata al discorso dello “ius soli”, ma che è legato a un’idea di un’Italia molteplice, come quella dei cori multietnici della nostra serie. Questo è il primo disco in cui c’è una presenza molto più ampia rispetto agli inizi di quando il progetto si chiamava “Roma forestiera”, perché abbiamo materiali che vengono da altre regioni. È una conferma sperimentale del fatto che in queste musiche che arrivano con i migranti o che i migranti e i loro figli interpretano in Italia non rimangono limitate alle cosiddette comunità migranti ma circolano. È un progetto che va contro l’idea della purezza “razziale”, contro l’idea della genuinità del folclore, contro l’idea della purezza delle radici. Perché diciamolo: si mescola tutto. La musica che i migranti portano con sé non è soltanto un’eredità delle origini autoctone ma è in qualche modo ripensata, ricostruita reinventata, cambia di senso alla luce dell’esperienza dell’emigrazione. Tutti hanno in comune la stessa esperienza che è quella di essere emigrati nello stesso Paese, di essersi dovuti confrontare con lo stesso razzismo, con la stessa burocrazia, con la stessa polizia, con la stessa ottusità culturale.
Dopo qualche settimana, una ragazza molto timida ha detto ‘Io vorrei cantare una canzone’. Ha cantato una canzone di Bollywood, che poi è diventata il primo brano del CD. Ascoltando gli altri si sono mostrati tanto entusiasmati che ciascuno voleva proporre una canzone del suo paese e della sua lingua.
armonizzare affatto usando dei bordoni. Però in due brani molto belli non c’è il bordone: sono brani che non nascono dalla coralità ma dalla persona che li ha proposti, come quelli del coro Canto Sconfinato di Pordenone in cui c’è il basso in una linea semplice. O una celestiale melodia cantata da Samba Fall, senegalese che racconta che aveva imparato la ninna nanna “Ayo bey” quando stava dietro alla mamma da bambino. Nel brano c’è poi la corista Elisa Santarossa che fa uno scat: sono interessanti le ibridazioni che si creano.
Qualcuno si autodefinisce interculturale, che magari sarebbe più alla moda a livello pedagogico. Sono concetti importanti di cui ho scritto 1, però anche se li chiamano multietnici l’approccio pedagogico dei maestri è interculturale e transculturale.
Quando ho fatto l’insegnante di italiano ho preparato qualche unità didattica su questo tema. Anche nei laboratori del Coro, ci sono stati giorni in cui si scrivevano dei testi e poi loro facevano free style. Io portavo la loop machine e alcuni facevano delle basi con beatbox e altri provavano a fare free style con i loro testi.
vuol dire far finta che non ci sia violenza e non ci sono discriminazioni, ma partire dal punto di vista che abbiamo a che fare con persone e non come oggetti della nostra compassione. Per il futuro… Io ho dei nipoti e ogni tanto si nomina una cosa e mi dicono ‘questo lo so perché me lo ha detto il mio compagno di banco che è del Bangladesh’. Questi bambini stanno già cominciando a praticare un mondo in cui non dico che siano già scomparse, ma perlomeno si cominceranno a erodere categorie discriminatorie; mi affascina tantissimo questa idea. L’apprendimento è reciproco.
O reintrodurre una disciplina criminalmente abolita come la geografia, che sarebbe molto importante a livello scolastico per attenuare una visione eurocentrica, se non nazionalista. E anche in letteratura: sai tutto dei minori del Trecento, ma figuriamoci se si sente mai parlare di Senghor, dei grandi poemi epici del Mali o di Tagore, che magari viene nominato da un bambino del Bangladesh nel coro di Torpignattara. Credo ci sia l’esigenza di mettere in discussione, di svecchiare e spezzare questo modello nazionalistico dell’insegnamento, che non è solo un problema italiano.