Ascolti imperdibili – AA.VV.: “Canzoni di fuga e speranza”, disco tributo agli Yo Yo Mundi

35 anni di carriera sono tanti, specie se vissuti tutti senza interruzioni, con quello spirito giusto che ti consente di andare avanti sempre cercando sfide e sentieri nuovi da perlustrare.
Così facendo non rischi di smarrire il senso del tuo lavoro, né di vedere annacquata la vena ispiratrice.

di Gianni Gardon – Pelle e Calamaio

Gli Yo Yo Mundi hanno fatto esattamente questo, stanno facendo questo, perché è giusto per loro parlare al presente, nonostante la felice ed estemporanea uscita in solitaria del suo uomo-simbolo, Paolo Enrico Archetti Maestri.
Il cantante e chitarrista, paroliere e compositore principale del gruppo, sul finire del 2024 ha dato alla luce un album a proprio nome davvero significativo ed emozionante, dall’azzeccato titolo “Amorabilia”, che su queste pagine sentii l’urgenza di andare a segnalare dopo i primi appassionati ascolti.

Lui stesso però si è premunito di rassicurare subito i fan sul futuro del gruppo, preannunciando tra l’altro delle novità, proprio in vista dell’anniversario della fondazione.
Se sul finire dell’anno era già stata inaugurata una interessantissima mostra dedicata alla storia e alle opere della band, nel 2025 si è pensato di dare seguito a quell’iniziativa, mantenendone la nomenclatura. Nato come un regalo da parte dei vari componenti degli Yo Yo al loro leader, “Canzoni di fuga e speranza”, diventa così un disco-tributo, nel quale tanti artisti di svariata provenienza hanno voluto rivisitare un pezzettino di questa fantastica storia.
Spiriti affini, vecchi amici, anime gemelli, unione di intenti, valori simili: le relazioni umane stanno alla base di queste collaborazioni.

La direzione artistica del progetto (pubblicato da Nota in un cd-libro che comprende anche un coinvolgente racconto di Giorgio Olmoti) è del sodale Eugenio Merico, con Gianluca Spirito (ex Modena City Ramblers), Maurizio Camardi e la collaborazione tecnica di Dario Mecca Aleina.
È stato entusiasmante provare a mettere insieme tanti nomi che poi sono riusciti a entrare in sintonia con pezzi in alcuni casi storici del repertorio del gruppo di Acqui Terme.

La peculiarità di questo album sta pure nel fatto che ogni artista che si è cimentato nella rilettura dei pezzi scelti, lo ha fatto mettendoci sì del proprio, ma non per questo snaturando gli originali, dei quali rimane intatta la bellezza.

Scorrendo l’elenco dei partecipanti, ci si imbatte subito nei Tupamaros, in una band cioè che è partita da presupposti simili e che come gli altri qui inseriti condivide idee di fondo con i protagonisti.
La loro rivisitazione di un brano fondamentale per la band quale “Freccia Vallona” fa capire subito che il livello generale dell’opera sarà altissimo, d’altronde la materia prima è eccellente.

Come giudicare altrimenti brani immortali del loro repertorio, vecchi e più recenti, come “Chi ha portato quei fiori per Mara Cagol?”, eseguita da un ottimo Alessio Lega; “Chiedilo alle nuvole” dell’inedita coppia Ricky Gianco-Lalli, o “Alla bellezza dei margini”, impreziosita dall’interpretazione di Massimo Carlotto?

Spicca inoltre la versione dei Gang di un episodio assai significativo come “Tredici” sulla Banda Tom

Sono tutti brani cui ogni partecipante a questo tributo si è accostato con enorme rispetto, senza stravolgimenti ma cercando comunque, come detto, di metterci qualcosa, come i validissimi Lastanzadigreta alle prese con “Evidenti tracce di felicità”Roberto Billi già con i Ratti della Sabina con la poetica “Ovunque si nasconda”, i Flexus che donano ritmo e vigore alla storica “Carovane”, per non dire della scatenata Banda Popolare dell’Emilia Rossa che modernizza “L’ultimo testimone”. E ancora Massimo Ghiacci dei Modena City Ramblers, che mantiene bene lo spirito originario di “Ho visto cose”Daniele Gennaro che tratta con estrema delicatezza “Fosbury” e Simona Colonna che emoziona non poco con la sua versione acustica e intima de “Il respiro dell’universo”.

Sarebbero invero tutti da citare i nomi degli artisti presenti in questo progetto, che invito caldamente ad ascoltare, perchè gli Yo Yo Mundi a mio avviso non sono mai stati celebrati a sufficienza per i loro indubbi meriti.
Ecco allora che questa compilation (come si diceva un tempo) giunge propizia a riaccendere i fari su di loro, accompagnandoci in 24 tappe lungo un percorso che non ha mai subito inciampi da trentacinque anni e oltre a questa parte.

 

 

 

Armandino Liberti, poesia e voce di un’utopia proletaria

(Pop)olare Un libro/cd, «Noi de borgata», per la prima uscita della nuova serie della collana I giorni cantati

di Alessandro Portelli – il manifesto

Nelle ultime dieci righe del suo supplemento alla riedizione della monumentale (627 pagine) Storia della canzone romana di Giuseppe Micheli (Newton Compton, 2005), Gianni Borgna prende atto dell’esistenza di Armandino Liberti. Insieme con un altro dei pilastri della storia del Circolo Gianni Bosio, Silvano «Cicala» Spinetti di Genzano, lo esorcizza collocandolo nella categoria che chiama «post-canzone»: una canzone che esce «dai limiti imposti dall’industria discografica» ma che non può dirsi «popolare» proprio perché è difficilmente in grado di essere conosciuta e fatta propria dal popolo proprio perché, come avrebbe detto Gramsci «conforme alla sua maniera di pensare e di sentire».

Sono successe molte cose da quando Borgna scriveva quelle righe un po’ paternalistiche, e la canzone romana ha avuto una vita e una crescita allora impensabili. Ma è giusto che la storia della canzone romana, se non finisce con Armandino Liberti, almeno faccia tappa da lui e trovi altra forza nell’ascoltarlo. Ora, al di là delle etichette – «post-canzone», «popolare» – su due cose Borgna aveva ragione: le canzoni di Armandino Liberti sono rimaste sconosciute al pubblico musicale e, soprattutto, sono «conformi alla maniera di pensare e di sentire» del mondo popolare precisamente perché a quel mondo apparteneva Armandino e in tutte le sue canzoni si sforzava sia di rendergli omaggio, sia di cambiarlo.

Armandino Liberti (Roma, anni 70), foto di Susanna Cerboni

PARTIAMO dal dato più materiale, concreto: la voce. In Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini descrive un paio di volte, di sfuggita ma con precisione, la voce dei suoi personaggi di borgata: una «voce bassa e rauca», una voce «sbrozzolosa». La voce di Armandino Liberti è precisamente così, «sbrozzolosa» sia in senso letterale, sia, soprattutto, in senso metaforico: la voce orale, poetica, musicale, politica, di Armandino Liberti non è una voce che cerca di piacere, non è una «bella voce» ma una voce ruvida, urticante, che – come altre, più celebri ruvide voci, da Tom Waits a Bob Dylan – non canta tanto pe’ canta e pe’ fa’la vita meno amara, ma canta per dirci qualcosa e per dare voce a tutte le amarezze generate da una società che sfrutta ed emargina lui e quelli come lui.
Infatti la sua canzone più conosciuta, Noi de borgata, è una risposta arrabbiata a un’altra voce romana, ruvida ma consolatoria. A Franco Califano, che in Semo gente de borgata cantava «stamo mejo noi che nun magnamo mai», come prefigurando quell’odierno ministro secondo cui i poveri mangiano meglio dei ricchi, Armandino Liberti risponde ricordando che il «magna’» glielo procura sua madre andando a servizio nelle case dei ricchi; a Califano che sperava nei «tanti modi pe’ sfonna’» tirandosi fuori dalla borgata individualmente, Armandino Liberti risponde evocando una giustizia «popolana» che restituisca libertà e dignità a tutti insieme.
C’è un classico spiritual afroamericano che parla di un treno «bound for glory», che va verso la gloria, verso il paradiso. Questo treno, dice la canzone, porta solo i giusti e i santi, non porta ladri, puttane, imbroglioni … Bruce Springsteen se ne impadronisce e la cambia: «questo treno porta santi e peccatori, porta sconfitti e vincitori, porta puttane e giocatori» – sul treno per la gloria c’è posto per tutti. C‘è posto per tutti, operai e puttane, ribelli e magnaccia, anche nel «treno» poetico di Armandino Liberti che viaggia verso un’utopia proletaria fondata sul lavoro: «La borgata allora s’arisana col lavoro e nella libertà».

Testi che raccontano le amarezze generate da una società che sfrutta

FACCIAMOCI caso. Da dove viene quella strana espressione, «s’arisana»? Non viene dal basso, dal linguaggio della borgata; è piuttosto l’appropriazione popolare ironica di una parola del lessico sociologico e burocratico che pensa alla borgata come una malattia da risanare. Armandino Liberti rovescia il significato del termine: la borgata allora s’arisana, si risana non come dite voi, col decoro urbano e qualche aggiustamento di facciata, ma come diciamo noi, con la giustizia, col lavoro e nella libertà. Anche qui, attenzione: non è il risanamento che rende la borgata degna di libertà, ma è la libertà che risanerà tutti, ladri e magnaccia compresi. Quando saremo liberi saremo risanati.

Armandino Liberti veniva dallo stesso mondo di Tommasino di Una vita violenta: «so’ fanello e so’ de Pietralata», e era comunista come diventa lui alla fine. Segue quasi lo stesso percorso: «co’ la vita me ce trovo a tu per tu», la traiettoria del ragazzo di vita, i piccoli furti, le «lenze della strada» (il Lenzetta di Una vita violenta), la povertà, l’emarginazione, la galera – fino alla visione di speranza e di riscatto che Pasolini incarnava in un «pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito».

Ma se nei romanzi di Pasolini la borgata è un mondo escluso, nei suoi brani è in relazione /contrasto, conflitto con altre istituzioni e altri strati sociali

TUTTAVIA, c’è una differenza. Nei romanzi di Pasolini, la borgata è un mondo escluso: i ragazzi di vita percorrono tutta la città, ma la città non viene mai in borgata. Nella canzone di Armandino Liberti, invece, la borgata è fin dall’inizio in relazione – contrasto, conflitto, invasione, esclusione – con altre istituzioni e altri strati sociali: non è un mondo auto escluso ma un mondo dominato, il prodotto di una rete di relazioni di potere. Si comincia dalla prima strofa: «e da quando la scòla m’ha cacciato»; poi si continua con la «litania» propagandistica dei media, l’intrusione missionaria di «preti, bizzoche e fiji de papà«: e il conflitto fra la borgata e il mondo fuori di essa culmina nell’ultima strofa: la maledizione a «questurini, giudici, avvocati»../ cani fedeli alle istituzioni» alla «gente bene, onesta, colta, raffinata» che si nutre delle miserie della borgata.
In questo senso, vale la pena di ritornare sull’altro suggerimento di Gianni Borgna: le canzoni di Armandino Liberti come «post-canzone». Non è chiarissimo che cosa intendesse Borgna; ma non c’è dubbio che molte di queste composizioni vanno al di là del modello di canzone a cui siamo abituati. Tutto sommato Noi de borgata è tra le più semplici, tra le più lineari, strofa dopo strofa come nelle ballate narrative tradizionali. In tanti altri brani invece non c’è un’idea sola, un tema musicale solo, una voce sola, un solo registro linguistico; e non si tratta solo dell’alternanza strofa-bridge della canzone di consumo ma di un gioco – uno scontro, un dialogo, un intreccio – di linguaggi e di voci. In un brano come Omicidio bianco la voce narrante in un italiano essenziale, quasi giornalistico si confronta con quella dialettale del bambino che chiede del padre che non torna (e lo spazio aperto, pubblico del cantiere contrasta con quello intimo di una cucina di borgata). Se di post-canzone si tratta, dobbiamo pensare piuttosto alla sceneggiata napoletana, pronta a trasformarsi in teatro: il dialogo c’è sempre, esplicito come in Servo e padrone, implicito nella dinamica fra i registri linguistici come figura dei rapporti di classe (e al teatro, alle maschere, rimanda anche il senso dell’umorismo che attraversa tante di queste canzoni, dallo sberleffo del Dispettoso all’autoironia di Mo’ la machina ce l’ho.
Ho detto che Noi de borgata è una delle meno teatrali fra le canzoni di Armandino Liberti. Eppure, anche qui le voci e i soggetti sono più d’uno: la parole del maestro, per esempio, sono riprodotte direttamente, come in un copione teatrale. Ma soprattutto, nell’ultima strofa Armandino Liberti si rivolge direttamente, in un dialogo implicito, ai «pilastri primi» di questa società – come se tutta la sua storia l’avesse raccontata a loro, destinatari impliciti, coro muto ai margini della scena. Ascoltando adesso queste canzoni, è bene non dimenticare che hanno almeno mezzo secolo di storia, e tante cose sono cambiate. E forse, guardandoci in faccia, ci dovremmo domandare chi sono e dove stanno quelle persone colte e perbene contro cui si rivolge la rabbia diventata informe di una borgata dove quello straccio rosso non sventola più.

* uno dei saggi presenti nel libro/cd «Noi de borgata» (prima uscita della nuova serie della collana I giorni cantati prodotta dal Circolo Gianni Bosio e dall’editore Nota). 


  • Acquista qui il Block Nota
    Noi de borgata. Le canzoni di Armandino Liberti
  • Artisti Vari – Canzoni di fuga e di speranza. Yo Yo Mundi (Nota, 2025)

    di Marco Sonaglia – Blogfoolk.com

    Correva l’anno 1994 quando una band di Acqui Terme pubblicava il suo primo album, dal titolo alquanto forte: “La diserzione degli animali da circo”. Stiamo ovviamente parlando degli Yo Yo Mundi che, per festeggiare gli oltre trent’anni di carriera, vengono omaggiati da importanti nomi della scena musicale italiana. La direzione artistica del progetto è di Eugenio Merico, con Gianluca Spirito, Maurizio Camardi e la collaborazione tecnica di Dario Mecca Aleina. Il doppio disco, la cui grafica è curata da Ivano Anaclerio Antonazzo, contiene un corposo libretto di trentadue pagine, con un racconto inedito del compianto Giorgio Olmoti dal titolo “Lande Rumorose”. Il primo CD si apre con una versione super folk di “Freccia Vallona”, rivisitata dai sempre bravi Tupamaros. La successiva “La storia e la memoria” ha robuste dosi di chitarra elettrica nell’interpretazione di Michele Anelli. “Chi ha portato quei fiori per Mara Cagol” trova in Alessio Lega (aiutato dai fidi Rocco Marchi e Guido Baldoni) la giusta linea politico-musicale. “Il silenzio che si sente” diventa ancora più pop e orecchiabile grazie all’intreccio delle voci di Roberto Grossi e dell’ottima Helle. Passione ed energia per “In novembre”, con C.F.F. e il Nomade Venerabile; sporca e tagliente “Domenica pomeriggio di pioggia”, con la valida Cristina Nico e il collettivo Colbhi. “Invece, “Al Golgota” è molto evocativa grazie a Marco Rovelli e all’inseparabile Paolo Monti. “Chiedilo alle nuvole” rappresenta sicuramente il momento più alto e intenso di questo lavoro, con il grande Ricky Gianco, la voce profonda di Lalli, Sergio Cossu e Maurizio Camardi. I mitici Gang ripropongono “Tredici” (la versione è quella contenuta ne “La rossa primavera” del 2011), una delle più belle canzoni che raccontano la Resistenza. Efficace anche Stefano Giaccone nel rivisitare “Il silenzio del mare”. Massimo Ghiacci (Modena City Ramblers) rilegge “Ho visto cose che in solitaria” con tinte Irish, mentre “Alla bellezza dei margini”, con la voce recitante di Massimo Carlotto e le finezze musicali di Maurizio Camardi ed Enrico Pesce, chiude la prima parte. Le inconfondibili sonorità dei The Vad Vuc aprono il secondo disco con “Andeira”. “VCR” è un brano combat dal sapore andino, proposto dai validissimi Ned Ludd All Stars (che, oltre a Gianluca Spirito, vede Daniela Coccia – dal Muro del Canto – alla voce). Trascinanti i Flexus in “Carovane”; sempre raffinata Simona Colonna ne “Il respiro dell’universo”. Molto energica è “L’impazienza”, proposta da Giorgio Ravera (La Rosa Tatuata), accompagnato dalla scoppiettante chitarra elettrica di Paolo Bonfanti. “Fosbury” trova la giusta delicatezza nella versione di Daniele Gennaro. In “Evidenti tracce di felicità”, Lastanzadigreta coniuga felicemente la canzone d’autore con l’elettronica, mentre Cri e Sara Fou conferiscono a “Lettera di morte apparente” una dimensione acustica molto avvolgente. Roberto Billi riveste di solarità “Ovunque si nasconda”; “L’ultimo testimone” ha echi dance grazie alla Banda POPolare dell’Emilia Rossa. “Léngua ed ssu” è ricamata sulla fisarmonica di Fabio Martino e sul prestigioso violino di Steve Wickham (Waterboys, Sinéad O’Connor, U2). “Tè chi t’éi” viene proposta in una versione live di forte impatto, con Maurizio Camardi in compagnia de La Banda di Via Anelli. Un lavoro che è un vero gesto d’amore, dove ogni singolo artista è riuscito a personalizzare queste canzoni, che hanno preso il volo e sono diventate veramente di tutti. Operazioni come queste ci confortano e ci fanno capire che niente unisce come la musica. Lunga vita agli Yo Yo Mundi e alla loro strada fatta di storie, incontri, coraggio, memoria, impegno civile e, soprattutto, coerenza.

     

     

    Corzani Airlines: Nicole Coceangig

    di Valerio Corzani – blogfoolk.com

    Nicole Coceangig 
    (Premio Ciampi, Livorno, Novembre 2024)
    Foto di Valerio Corzani
    “Nel friulano ci sono parole che non possono essere tradotte in italiano (e questo è uno dei valori di una lingua), ma un modo di dire che mi ha sempre detto mia nonna e che ho sempre cercato di preservare è ‘fare del bene e dimenticarsi, fare del male e ricordarsi’. È un modo di dire insito nell’etica friulana, quello di fare del bene senza pretendere nulla in cambio e, invece, di sentire il peso del male arrecato con la speranza di poter rimediare”.
    Nicole Coceangig
    fotografie e suggestioni 

    Catanzaro, Ettore Castagna e la lira: la vivida testimonianza di un mondo antico e mai perduto

    images Catanzaro, Ettore Castagna e la lira: la vivida testimonianza di un mondo antico e mai perdutoEttore Castagna, catanzarese di domicilio bergamasco ma migrante di destino ed anarchico di animo, è un personaggio di collocazione obliqua: ricercatore, antropologo ma anche quotato scrittore. La sua produzione artistica è fluente ed abbraccia varie esperienze: dai Re Niliu, un gruppo che è stato progenitore di un sound etnico tagliente, a una carriera solista che lo ha visto di recente anche esordire con “Eremìa”, un album molto ispirato e dal taglio cantautorale, pubblicato da Alfa Music qualche tempo fa. Nella sua ultima fatica si è concentrato sulla lira, un affascinante strumento ad arco dotato di sole tre corde, testimone di un mondo antico e mai perduto.

    “Lira sona sona” è l’eloquente titolo: si tratta di una commissione pubblicata da www.nota.it, riservatagli nientemeno che dalla prestigiosa facoltà di Etnomusicologia della Sorbona a Parigi. Un disco ruvido e magnetico che scuote l’animo e svela le radici di una dimensione originatasi da antichi per quanto insuperabili Maestri: Questo è un album – esordisce- che avrei dovuto fare trent’anni fa ma che non avevo mai realizzato perché costantemente distratto da altro. Faccio da sempre troppe cose insieme. Nell’ultimo decennio poi mi sono  distaccato in modo  forse definitivo dalla riproposta filologica,  aggiungerei però che il Destino ha risolto il gioco. Una mattina di maggio 2023 spunta sulla porta di casa mia, a Bergamo il chiarissimo Professore Dider Demolin, che mi appare subito molto determinato. “Sono venuto a trovarti perché ho bisogno di parlarti di un progetto…” esordisce, e poi attacca un discorso al quale stentavo a credere, dato il mio rapporto non sempre sereno col mondo accademico, per lo meno italiano.

    Una sorta di investitura sul campo insomma…
    “Quella per fortuna era arrivata già prima. Didier è uno scienziato sorridente, dai modi franchi e diretti, senza alcuna retorica. “Tu sei il testimone storico della lira della Calabria – ha proseguito – quindi tocca a te fare un lavoro di sintesi della tua esperienza, in sostanza su di te, dal momento che rappresenti il Bartok italiano”.

    Wow che shock!
    “Difatti una volta ripresomi da lì a poco, che avrei potuto dire? Forse di no? Giammai. Con il prezioso supporto di un importante  sponsor internazionale, il disco è stato registrato alla velocità della luce in un mese, ho fatto quasi tutto da solo registrando fra Reggio Calabria e Bergamo. Pochissimi gli apporti esterni. Un disco direi etnografico, duro, schietto, frontale: la lira come si è suonata per secoli e come la suono io dal 1985. Devo però nominare come compagni di strada la meravigliosa presenza della voce di Jenny Caracciolo, molto antica ma a volte con venature neomelodiche e il sound primordiale di Mimmo Morello. Al disco hanno partecipato anche Peppe Muraca e Anna Cinzia Villani”.

    Cosa è per te la contemporaneità? Perché insisti a suonare la lira in questo modo? Non temi l’archeologia?
    “Sarò banale ma la mia idea del contemporaneo è molto filologica. Tutto ciò che esiste in questo momento, che con me esiste in questo momento. Suonare la lira così all’antica a molti pare limitato: bicordi a bordone, scale modali con le note alterate, insistiti ritmici sporchi e primordiali. Niente vibrati e niente scale spettacolari  con salti di posizione paganiniani ma circolarità, ricombinazioni continue, ipnotiche. Certe volte che suono solo, che suono per me, mi perdo per tempi dilatati e infiniti in questi cicli di micro variazioni e microtoni. Penso più a Steve Reich e a Terry Riley che al virtuosismo degli archi romantici… E devo dirti che procedendo in questo modo trovo la pace del cuore”.

    Vivi a Bergamo dalla fine degli anni ’80, quindi lontano dalla Calabria e in maniera quasi ovvia per quanto inevitabile, tu i maggiori consensi li hai raggiunti altrove. Che sensazione ti fa adesso rispetto a quando sei andato via? Ti pesa la considerazione di non essere un “restante”? Oppure la Calabria resta, come ha già detto qualcuno, un luogo della mente?
    “L’illustre De Martino diceva che è necessario avere un villaggio nella memoria e Pavese diceva  che  un paese “ci vuole”, anche solo per andare via. La Calabria è il villaggio della mia memoria. Ho una visione non retorica della Calabria e accetto quello che è oggi la mia regione di nascita come custodisco gelosamente memoria di quello che era prima e di quando sono andato via. Io sono un sostenitore della memoria  e uno scettico della nostalgia. La memoria è restituire le cose come sono andate. La nostalgia è la ricordanza di Leopardi, è trasformare il passato in meglio o in peggio. “Voglio essere testimone anche quando non ci sarà più nessuno a cui rendere testimonianza” dice Cassandra di Christa Wolf. Ed io questo penso”.

    Restiamo ancora sulle tematiche regionali: paleariza se non erro nacque nel 1998, Tarantella Power(oggi Kaulonia Tarantella Festival) nel 1999, Primavera dei Teatri nel 1998, Joggiavantfolk negli stessi anni. Oggi Primavera dei Teatri è un festival considerato tra i maggiori nel panorama del teatro italiano proprio per la sua apertura verso altre realtà e territori, mentre Paleariza non si svolge più. Kaulonia Tarantella Festival si trova quasi costretto ad invitare nomi della TV, quasi delle vecchie glorie, che nessuno calcola realmente dal punto di vista artistico per avere un titolo sulla stampa locale e Joggi Avant Folk rimane un festival che si basa sul volontariato come altre realtà lodevoli ma che poi non hanno retto. Cosa è successo secondo te?
    “È successo che il livello politico e quello culturale in Calabria non dialogano. La politica è asfittica, incapace, insensibile, depressa. Rispecchia lo sconcerto, il disincanto, la mancanza di sogni dell’elettorato. La qualità non interessa, non merita finanziamento. La Calabria vive quindici giorni ad agosto ed il metro della politica per finanziare lo spettacolo in genere è il cosiddetto  “salsicciometro”. Quanto sozizzu avete venduto? Tanto? Ok allora la festa è andata bene”.

    Giorni fa si è laureato il primo zampognaro presso il conservatorio di Nocera Terinese. Ma da quanto mi risulta alle feste tradizionali “u sonu”, oggetto anche della tua ricerca, è diminuito fortemente. In compenso si stampano CD e libri sull’argomento. Ti sembra che il tutto abbia una sua logica? Quale potrebbe essere invece una politica efficace per la valorizzazione culturale e turistica delle tradizioni locali?
    “Fino a pochi anni fa ci vergognavamo della stalla del nonno  perchè puzzava di animale e di concime. Oggi chiediamo i finanziamenti per farne uno spazio panoramico con idromassaggio dentro un agriturismo. Questo è quello che è successo. La cultura contadina e pastorale è stata oggetto di secolare vergogna storica. Dopo aver buttato a mare il bambino e l’acqua sporca ecco che oggi c’è il rimpianto. Dilaga la nostalgia verso quello che non abbiamo mai conosciuto davvero perché oggetto di rifiuto assoluto storico e sociale.  Rivogliamo la cosiddetta “tarantella”, rivogliamo la cosiddetta “tradizione”. Il Sud sembra una riserva indiana nel quale gli indigeni sconfitti mettono in scena una loro ritualità ipostatica  per incassare qualche dollaro dai turisti. La Calabria ha il suo repertorio… il peperoncino… la tarantella… perfino la ndrangheta… Una politica veramente seria di analisi critica della storia della Calabria e del Sud non è mai avvenuta. Solo un processo del genere, con la consapevolezza che porta con sé potrebbe avere un valore come elemento fondante di un progetto per il futuro”.

    Quale ritieni essere stata la maggiore soddisfazione del tuo percorso artistico? Che differenza c’è quando scrivi una canzone ed invece quando hai a che fare con la stesura di un romanzo?
    “Sono molto orgoglioso di aver mantenuto sempre la schiena dritta. Ho sempre suonato, cantato e scritto quello che mi piaceva scrivere in quel momento. Non ho mai rincorso le mode. Ho fatto il possibile e, spesso, l’impossibile per ignorarle. Mi piace scrivere musica, libri senza tempo. Dischi che ascolterai fra dieci o quarant’anni e penserai che ti parlano ancora. Non mi interessa essere a la page, seguire il cosiddetto mood. Ho fatto e faccio una fatica orba per essere me stesso e per restarlo. Dentro la mia musica e la mia scrittura c’è il bassista punk degli anni ’70, il viaggiatore, l’innamorato della filologia, il lettore dei classici come della beat generation, il suonatore di strumenti tradizionali, l’antropologo, il collezionista di vinili (ce mi hanno rubato), l’emigrante postmoderno, il  documentarista, il giornalista, il professore di letteratura… Una canzone può essere molto diversa da un romanzo. Non solo perché il lungometraggio è diverso dal cortometraggio ma io seguo l’insegnamento del caro indimenticato amico Mario Giacomelli. Una volta mi disse: “Quando io mi emoziono mentre scatto vuol dire che quella sarà certamente una grande foto”. Questo vale per tutto: per la foto, per il romanzo e per la canzone”.

    Cosa ti aspetta nei prossimi mesi? So che hai già pronti almeno uno se non due dischi di materiale inedito e cosa ascolti oggi mosso solo dal piacere di farlo senza che il tutto possa eventualemte avere delle ripercussioni sulla tua attività di ricerca?
    “Sono un ascoltatore caotico ma globale. Non ho generi di riferimento. Evito in genere il mainstream ma finisco per ascoltarlo lo stesso. Non mi piace la lirica salvo rare eccezioni. Il bello è che esattamente tutto quello che ascolti ha ripercussioni inevitabilmente in ciò che scrivi e suoni. Ma questo è il mio modo artistico di vivere la contemporaneità. In genere per scaramanzia sono piuttosto avaro di anticipazioni sul futuro. Sto lavorando al mio prossimo e secondo album da cantautore che dovrebbe uscire entro il 2025. Non avendo però grandi e ricche produzioni alle spalle i tempi non sono certi. Ecco, di questo sono orgoglioso, tutta la mia  vita artistica, nella scrittura e nella musica, è sempre stata autoproduzione. Ho sempre deciso tutto io… punti, virgole, pure le parentesi quadre”.

     

    Nicole Coceancig – Zohra

    di Ignazio Gulotta – distorsioni.net

    Avevamo visto Nicole Coceancig in novembre in occasione del meritatissimo Premio Ciampi vinto dalla giovane musicista friulana e sul palco del Teatro Goldoni ci aveva immediatamente conquistato per la grinta e la personalità mostrata sia pure nel breve set di due canzoni. Ovvio che appena uscito abbiamo subito comprato il suo cd “Zohra” un concept album basato sulla storia, immaginaria, ma estremamente realistica, di una giovanissima afghana costretta ad abbandonare il suo Paese e a cercare rifugio in Europa. Il disco è la storia della sua odissea, comune purtroppo a molti che guerre, fame, repressione politica, costringono alla fuga. Per raccontare questa vicenda Nicole Coceancig, a cui non manca il coraggio nelle sue scelte, ha utilizzato il dialetto friulano, il che aggiunge forza emotiva alle sue canzoni, nelle quali si respira il sapore di una terra e di un popolo poco incline alla retorica, che conosce l’asprezza della vita e la generosità di una terra che è stata ed è crocevia di popoli e culture e che però rischia di dimenticare questa sua storia affogando nella retorica del ‘padroni a casa nostra’. “Zohra” è un urlo accalorato e drammatico per riscoprire i valori dell’umanità e dell’empatia per chi soffre, valori quanto mai necessari in questi tempi cupi in cui invocazioni di guerra e genocidi di interi popoli si riaffacciano tragicamente nella cinica indifferenza delle classi dirigenti. Il disco è pubblicato dall’etichetta Nota, sul suo sito potete ordinare il cd, che in catalogo ha Gualtiero Bertelli, Giovanna Marini, Caterina Bueno, nomi al cui confronto non sfigura adesso quello della Coceancig che si inserisce in quella nobile tradizione di canto civile che tanto ha dato alla canzone folk italiana. A dire il vero per forza espressiva e capacità di emozionare non vi sembri blasfemo il paragone anche con la grande Joan Baez. Del resto la voce della friulana è efficacissima sia nell’esprimere i momenti di dolore, di solitudine, di angoscia della sua protagonista, per esempio nel toccante inizio di Di Trop Che o Ai Ciaminat o nell’intensa Ciare Mame, sia la forza, la determinazione, la rabbia che la anima nel corso del viaggio verso l’Europa. Nella cupa e dolente Chiamami Per Nome l’arrangiamento sembra andare per ondate, la voce aumenta di drammaticità e il testo impressiona nell’evocare il senso di smarrimento che coglie quando si rischia di perdere la propria identità «Chiamami per nome/ma fallo nel buio /Perché in questa storia/fa più paura la luce». Gli arrangiamenti acustici curati dalla stessa Nicole e da Leo Virgili che nel disco suona la chitarra creano l’appropriato pathos e la giusta atmosfera drammatica, non travalicano mai la protagonista, la voce, ma la accompagnano egregiamente con prevalenza di una scelta minimalista, ma anche in qualche caso enfatizzando come in Silos grazie agli archi o come nella splendida La Liende Dal Silveri dove le voci delle chitarre, degli archi e delle percussioni si intrecciano affascinanti ad accompagnare una canzone che è una sorta di monito a non rinchiudersi e una speranza in un futuro diverso, perché come recita il titolo della villotta tradizionale riarrangiata a chiusura del disco Non C’è Mai Stata Pioggia e Zohra è partita per conquistare la propria libertà e indipendenza. L’auspicio è che il pubblico venga a conoscenza di questo lavoro, gli presti ascolto e sappia apprezzare le indubbie sue qualità. Con Nicole Coceancig possiamo salutare un’artista che non ha paura di apparire impegnata, di cantare il nostro non felice tempo e sa farlo in modo eccellente. Il cd ha un libretto molto curato che contiene i testi in friulano e tradotti in italiano.

    Voto: 8/10

    Per Paolo Enrico Archetti Maestri degli Yo Yo Mundi arriva il primo album da solista: Amorabilia.

    di Giorgio Zito – TomTomRock

    Dopo 35 anni di carriera come voce degli Yo Yo Mundi, festeggiati con concerti e una mostra dal titolo “Canzoni di fuga e speranza” (in cui si ripercorre la storia della band acquese), Paolo Enrico Archetti Maestri pubblica il suo primo album da solista. Amorabilia è  un termine inventato dall’autore, nato dall’incontro tra le parole Amore e Memorabilia. Il disco si presenta con in copertina la foto in primo piano del musicista ragazzino, inducendo a pensare che probabilmente questo è un disco molto personale e intimo, dove prevalgono i toni acustici.

    Gli episodi più ‘autoriali’ di Amorabilia

    Spiccano tra tutti un quartetto di brani suonati in trio con Susanna Roncallo alla chitarra e Simona Colonna al violoncello: Baionetta una canzone intensa contro la guerra; Iaio e Fausto, un bellissimo ricordo, delicato e intenso, scritto per l’omonimo spettacolo teatrale che ricorda l’omicidio dei due militanti milanesi; Stelle nere, scritto per una band pugliese, dove le stelle costrette ad allontanarsi dal luogo dove fino a poco prima brillavano illuminando il mondo sono una magnifica e “illuminante” metafora dell’umanità costretta suo malgrado a emigrare; La canzone delle distanze, una ballata acustica con Simona Colonna al violoncello e alla voce e Susanna Roncallo alla chitarra, che chiude il disco con un lume di speranza (“ho sentito tutto non ho capito il senso / ho visto tutto non ho guardato niente / ho dimenticato tutto, ma mi ricordo di te”).

    Predominano i suoni acustici anche in L’ennesima canzone sul tempo, una classica canzone d’autore, con Cecilia Lasagno ospite alla voce e all’arpa e il batterista prematuramente scomparso Alan Brunetta. Sono episodi in cui emerge la notevole capacità testuale di Archetti Maestri, evidenziata ancor più proprio dalla scelta dei suoni acustici. Ma sono molto convincenti anche i brani dove gli arrangiamenti d’archi sottolineano l’intensità delle parole del cantautore acquese, come nel lento Il cigno e la Rosa, una canzone apparentemente leggera ma dal significato profondo (“Questa vita piccola nel paradiso delle fatiche”) o nella bella L’amore trova sempre la sua strada, dove una melodia convincente che si apre con l’ingresso degli archi dipinge quasi un inno dedicato alla forza dell’amore, che alla fine supera tutte le barriere.

    I momenti elettrici rimandano agli Yo Yo Mundi

    Non mancano comunque i brani più elettrici dove emergono i suoni tipici degli Yo Yo Mundi, presenti al completo in Estate in piscina (altro titolo che arriva da un precedente spettacolo, Storie sul filo dell’acqua), o dall’aria più pop, come il ritmo allegro di I cani sognano di noi, che apre il disco (qui è presente la sezione ritmica degli YoYo). Di sogni si racconta anche in La bimba che sognava Maradona,  ancora una melodia convincente, in cui agli archi si sostituisce la sezione fiati, con l’aiuto prezioso della chitarra di Paolo Bonfanti. In questa varietà di sonorità e ospiti, c’è spazio anche per la quasi filastrocca pop di Curcuma Zenzero, un insieme di colori e suoni etnici (ospiti Simone Lombardo alla cornamusa, Maurizio Camardi al duduk, Laura Merione al violino, Elisa Testa alle voci) per raccontare i sapori delle cucine etniche, che diventano etiche e solidali.

    Amorabilia non è solo il disco solista di un cantautore che con la sua band ha scritto pagine importanti della musica italiana, ma è un progetto a suo modo coraggioso, che agli undici brani presenti aggiunge un libretto con undici composizioni poetiche, e si prende anche il lusso del mixaggio in Dolby Atmos (cosa non scontata nell’ambiente indie italiano), grazie alle mani del fidato da Dario Mecca Aleina.

    • Acquista qui il Block Nota
      Amorabilia
    • Gualtiero Bertelli – In giorni come questi (Nota, 2024)

       Gualtiero Bertelli: La tradizione in un tempo nuovo

      “A pari livello di dignità letteraria, la forma italiana e quella veneziana”. Così una nota di redazione apriva “Venezia e una fisarmonica”, l’autobiografia pubblicata nel 2014 in cui Gualtiero Bertelli aveva intrecciato in quasi cinquanta brevi istantanee il suo sguardo, ancorato alla Giudecca, accompagnato dalla fisarmonica, regalo dei genitori ai tempi della prima elementare; finita la scuola, per andare dal maestro Grossato a studiare lo strumento, “mia madre mi imbarcava alle Zitelle, con la fisarmonica Galanti a 24 bassi in spalla, mi affidava a qualche passeggero che conosceva e così arrivavo a destinazione”; approdi musicali che passo dopo passo l’hanno portato ad attraversare il resto di Venezia, del Veneto, dell’Italia e il capitalismo senza bussola della seconda metà del Novecento. Un capitalismo monotono: nel 1965 la sua prima registrazione per I Dischi del Sole fu “Sta bruta guera che no xe finia”; sessant’anni dopo, la macchina bellica strazia e minaccia più di prima, ed ecco nel nuovo album “Ninna nanna del fabbricante d’armi”, (testo di Michele Serra) rispondendo all’urgenza di confrontarsi con la “tradizione” come con una clessidra (come ben sintetizza Edoardo Pittalis), imparando a capovolgerla, farla risuonare, rimetterla in gioco “in un tempo nuovo”, chiamando ad incidere anche strumenti elettrici e batteria, precedentemente coinvolta solo una ventina d’anni fa nello spettacolo “Il maestro magro” dedicato da Gian Antonio Stella all’emigrazione interna italiana degli anni Cinquanta.  Abbiamo chiesto a Gualtiero Bertelli di raccontarci il suo mondo musicale, i contesti in cui nasce e come è riuscito a tradurli in parole e musiche.

      I tuoi lavori discografici abbracciano 60 anni: quali sono stati i principali cambiamenti che hai osservato nel “fare” un album lungo quest’arco di tempo?

      “In giorni come questi” è uscito così perché ho ripreso a fare canzoni. Ne avevo alcune in “saccoccia” da tempo che, a mio avviso, meritavano di essere in qualche modo pubblicate. Mi ha fatto tardare un po’ l’arrivo della pandemia, quando si girava davvero poco, come, del resto, anche ora. Conoscendo la mia scarsa capacità di vendita e che, qui a Venezia non c’è più un negozio che vende dischi, questo mi ha fatto ritardare. Poi mi sono messo al lavoro e mi sembra sia venuta fuori una cosa interessante, perché in me c’è stato un cambiamento che si è riflesso nelle canzoni, con alcune sorprendenti per chi ricorda solo “Nina ti te ricordi”. C’è anche il fatto che mi sono proprio divertito a lavorare con i musicisti e fare una cosa musicalmente più ricca di spunti. Le nostre canzoni degli anni d’oro erano per chitarra, voce e fisarmonica, o chitarra e contrabbasso. In questo nuovo disco c’è un fiorire di interventi sonori diversi, anche suoni contemporanei con l’uso del sintetizzatore e delle chitarre elettriche. Certo, ho cercato di non fare improvvisamente il beat di mestiere, ma di usare queste sonorità per rappresentare un rinforzo del messaggio della canzone.
      Nel testo che accompagna il CD, Edoardo Pittalis dice che sei “la canzone veneziana” e un “cantastorie di oggi” che “denuncia e spiega”. Quali canzoni esemplificano meglio queste definizioni? Che rapporto hai oggi con Venezia e il territorio veneziano?
      Cantastorie non è solo un modo di fare canzoni. Il cantastorie è colui che tendenzialmente nei testi delle sue canzoni racconta soprattutto delle storie e questa è una mia caratteristica da “Vedrai com’è bello” a “Nina ti te ricordi”, passando per “Stucky” sono delle storie. In questo disco ci sono delle storie come “È un amore impossibile” il cui testo non è mio, ma del poeta romano Sesto Aurelio Properzio che lo scrisse venti o trent’anni prima di Cristo e io l’ho messo in musica. “Posso esserle utile?” racconta di un ragazzo che va a lavorare in call center. Insomma, nel disco sono presenti diversi brani che hanno alla base delle

      storie vere, pezzi di storia.

      Che rapporto hai con Venezia e con il territorio veneziano? 
      Il territorio è dove vivo perché Mira è sul Brenta che è il fiume dove in Laguna è nato il Canal Grande. Sono a venti chilometri da Venezia, da Piazzale Roma. Ci vado spesso, ho contatti con persone ed enti che operano in questa città e ogni tanto mi coinvolgono in cose belle. La mia presenza in città non è proprio costantissima come una volta, ma quando mi cercano io vado. Nel disco dico cosa penso della città: che rappresenta sé stessa con una faccia immutabile da secoli, ma in realtà si sta consumando come una candela. Oggi il centro storico ha quarantamila abitanti, che sono gli stessi di Mira, mentre quando ero io ragazzo c’erano cinquecentomila persone. C’è stato un depauperamento enorme perché il lavoro si è trasferito a Marghera e i turisti sono un cataclisma quando arrivano a valanghe, in estate. Se si lavora d’estate si fa più fatica in inverno, quando tante attività si fermano, come le gondole, anche se ho visto qualcuno farci dei giri in cappotto. Venezia è sostenuta dal turismo che è la prima industria, e forse l’unica, della città, ma, se i veneziani potessero, metterebbero i turisti fuori perché per chi la abita in estate praticamente è una follia; ma senza di loro non vivono.
      Che ruolo ha avuto nella tua formazione musicale, culturale e politica il lavoro di ricerca sul campo, per esempio con i canti di Anguillara Veneta, alle foci dell’Adige? 
      È stata una ricerca piuttosto interessante perché era costruita bene. Siamo stati vari giorni lì, abbiamo conosciuto delle persone, abbiamo vissuto il paese dove c’erano mondine e abbiamo trovato tante storie come quelle dei lavoratori, o degli ambulanti che vanno ai mercati a vendere le tazzine, i bicchieri… Siamo stati accolti molto bene e abbiamo potuto parlare con un sacco di gente. La cosa più interessante è stato il trascorrere una giornata fuori nei campi con una quarantina di ex mondine, tutte di Anguillara Veneta, che non facevano più questo lavoro perché sono state sostituite, in buona parte, dalle macchine. Ci hanno raccontato che con la capa andavano a lavorare prima in Piemonte e poi si erano spostate in provincia di Modena. Alle cinque e mezza del mattino ci siamo spostati con loro in pullman e con loro

      abbiamo vissuto una giornata intera. Abbiamo mangiato un panino e siamo tornati verso le sette o le otto di sera. Abbiamo parlato, abbiamo registrato e abbiamo raccolto un sacco di materiali perché hanno incominciato a cantare mentre lavoravano, esattamente come quando erano mondine, hanno fatto il loro repertorio, anche se stavano raccogliendo i pomodori. Il disco raccoglie una piccola parte del lavoro che abbiamo fatto e di quello che abbiamo raccolto. Quella è stata un’esperienza intensa, la prima, poi abbiamo fatto anche altre registrazioni, ma sempre cose di mezza giornata, di un ora o due.

      Che rapporto hai oggi con gli strumenti che suoni e dove nascono le tue musiche, dalle tastiere o dalle corde?
      Fondamentalmente compongo con fisarmonica, chitarra e tastiera, a seconda di cosa devo fare. Il rapporto che ho con questi strumenti è buono e questo disco ne è la testimonianza. Trovo molto interessante usare gli strumenti per le loro caratteristiche specifiche, che sono timbro e dinamica, cioè che volumi riesci a tenere fuori, e ovviamente la scala. Mi sembra la tastiera ha questo tipo di dinamica e di apertura. Negli anni Sessanta in America, ma poi arrivò anche da noi, ci fu un grande dibattito su come eseguire la musica popolare. Il sound del contadino, del venditore ambulante o di un minatore, come lo rendi? Il modo di cantare? Se io canto una canzone popolare con la chitarra elettrica da rockettaro la impoverisco, la annullo. In quel periodo nacquero anche cantautori che venivano dal mondo popolare come Bob Dylan e molti altri. C’erano i cantanti folk che puntavano ad eseguire questa musica con strumenti acustici, chi veniva invece dalle città spingeva per suonarla come gli pareva con i suoni che voleva. Questo problema

      si è posto anche per noi, con il Nuovo Canzoniere Italiano, e fu Roberto Leydi con Giovanna Marini a porlo. Noi rimanemmo interdetti, ma eravamo interessati a questo tipo di ragionamento; tanto è vero che i primi dischi erano poverissimi dal punto di vista musicale e si puntava tutto sul testo con arrangiamenti più semplici ed immediati possibile. Piano piano, poi, le cose sono cambiate, è arrivato Paolo Ciarchi, che ha dato un contributo notevole. Giovanna Marini ha introdotto, invece, modalità classiche all’interno del suo repertorio esecutivo. Io stesso ho cominciato a favorire e a desiderare questo tipo di suoni più moderni e ho aggiunto strumenti, mi sono informato, ho studiato e ragionato sull’uso dei timbri e cosa potevo utilizzare. Può sembrare poco, ma usando un sintetizzatore con venti tipi diversi si suoni è possibile avere una grande varietà di colori. “In giorni come questi” è un punto di arrivo in questo senso. Quando ho fatto i concerti in cui l’ho presentato eravamo in otto a suonare.

      Come hai selezionato, per questo album, le canzoni già incise in precedenza e come avete cucito loro questi vestiti (musicali) nuovi?
      Sono pochi quelli che ho reinciso e l’ho fatto per due motivi. Un po’ perché mi interessava riproporre il tema, ma specialmente perché erano stati prodotti in dischi poco distribuiti. Come potevo fare un disco sulla città e non metterci “De ‘sta cità” dove canto dei veneziani che vivono altrove. Come facevo a non inserire “’Sta vita”? Le ho arrangiate in coerenza con le altre. Ci sono cose pazzesche dentro. Qualcuno potrebbe dire: “È impazzito, questo!”. La novità assoluta è la batteria che non avevo mai usato. Avevo

      usato le percussioni in passato ma non la batteria. Tra l’altro, il batterista è molto bravo e ha fatto un bel lavoro. Poi c’è l’uso degli strumenti elettrici, come la chitarra che forse ho usato qualche altra volta, ma molto raramente; ed ancora il sintetizzatore, le tastiere. Ho usato questi strumenti in maniera radicale per dare timbriche diverse. Se tu ascolti, fin dalla canzone “Tutto come se…” in cui canto della Venezia che sta sparendo, questi suoni sono fortemente rappresentativi perché sono dilatati.

      Certo, è molto cinematografica come canzone… 
      Sì, questo è il mio scopo, raccontare cosa sarà.
      Come hai scelto i musicisti, ben dodici, coinvolti nelle incisioni? Quali sono i loro apporti che senti come più significativi e con quali continuerai a collaborare nei concerti?
      Nel primo concerto di presentazione del disco che ho fatto a Mira eravamo in otto sul palco e sono quelli con i quali suonerò anche successivamente, ogni volta che sarà possibile, perché ci sono dei costi. C’è il pianista che suona da sempre con me, il contrabbassista e il chitarrista pure, così come il sassofonista che ha lavorato molto con me. Gli altri musicisti me li sono fatti presentare, li ho incontrati e li ho chiamati a registrare. Registravo una canzone per chitarra e voce o poco più, dopo ogni strumento dava il suo contributo in base alle necessità per dare un colore o un’atmosfera particolare. Davo delle piccole indicazioni su come intervenire e poi loro aggiungevano lo strumento. Se c’era da aggiungere il violino era più semplice; era più complesso, invece, quando dovevamo usare un sintetizzatore e per quello c’era da ragionare di più, ma abbiamo fatto tutto in maniera assolutamente simmetrica e senza nessun problema di rapporto. Io sono andato lì con delle idee generali per ogni canzone, poi ognuno ha dato il contributo che riteneva di dare.

      Hai lavorato a lungo nel mondo dell’educazione: quali di queste canzoni ti auguri possa farsi strada anche in quell’ambito e come pensi potrebbe trasformarsi l’educazione musicale nella scuola italiana?

      È una bella domanda. Dal mondo della scuola mi sono distaccato da parecchi anni. Insegnavo in una scuola elementare e penso che, così come sono, nessuna di queste canzoni possa essere cantata da un bambino, a meno che qualcuno non trovi qualche pezzo come quelli dedicati a Venezia che possa essere adattato. Con il mio chitarrista e il giornalista Edoardo Pittalis, spesso ci chiamano nelle scuole per cantare canti storici legati, per esempio, alla Seconda Guerra Mondiale o all’Italia che rinasce dopo la guerra, oppure il problema dell’infanzia o dell’immigrazione su cui abbiamo lavorato parecchio. Lì eseguo canzoni che fanno riferimento a quel tema, proiettiamo delle immagini e racconta queste storie. In questi incontri di tipo didatti, pedagogico e culturale se c’è qualche canzone mia che possa essere funzionale la canto. Certo se dovessi raccontare lo sviluppo industriale di Porto Marghera e della sua fine, ce la metterei di sicuro perché.
      Come pensi potrebbe trasformarsi l’educazione musicale nella scuola italiana? 
      Bella domanda anche questa! Per trasformarsi oltre alla semplice educazione, servirebbe un’educazione al suono. Bisognerebbe avere chiari gli obiettivi, capire cosa ci si aspetta da una classe di terza elementare in questo senso. Sono pochi gli insegnanti che lavorano su questo piano perché magari sono musicisti, ma ci dovrebbe essere un’indicazione precisa. Ci sono esercizi, esperienze ma non esiste un modo per aiutare un insegnante a fare un programma preciso per una quarta, una quinta, una prima o una seconda. Ho scritto più di qualcosa quando mi occupavo di scuola. La riflessione da fare è che spesso l’eduzione musica o non si fa, come non si fa educazione civica oppure la si fa cantando una canzoncina insieme come quelle di

      Rodari, sempre se il maestro o la maestra sono intonati e riescono a suonare in modo accettabile. I bambini cantano queste canzoni, che è una cosa deliziosa, l’ho fatto anch’io cantare con i miei ragazzi. Ho scritto delle canzoni per loro, o scritte con loro. L’altro aspetto da tenere in conto è che viviamo in un mondo circondati da suoni che hanno delle caratteristiche particolari per la nostra vita. Se senti un rumore, mentre aspetti l’autobus selezioni tra i vari suoni di macchine… Bisogna fare in modo che i ragazzi sappiano decifrare e descrivere i suoni. Fare una mappa dei suoni non è una cosa che ho inventato io, ma c’è uno studio di tanti anni fa della scuola francese. È necessario che i ragazzi riescano a distinguere i suoni che scandiscono la giornata, quello che ti danno delle emozioni. Ascoltando il paesaggio sonoro lo riconosci e lo ridescrivi, questo è l’approccio: l’educazione al suono è questo. La musica si collega a questo. Cosa è che fa musica? Sono suoni particolari. Questo è un lavoro interessante e l’ho fatto per un paio d’anni quando avevo il tempo pieno con gruppi di quindici ragazzi e ho avuto immediatamente dei risultati interessanti. Mi ricordo che mi dicevano: “Ascolta che bella musica sta facendo questa moto”. Il suono cambia, cresce, cala… è importante capire anche la trasformazione di un suono meccanico. Nella vita quotidiana ci sono dei suoni che sono delle tracce permanenti come il suono delle fabbriche o le campane della chiesa sono suoni con una traccia culturale, storica o di memoria come durante un funerale. Quelle campane raccontano una storia all’intera comunità e la coinvolgono. Il suono organizza la vita sociale perché scandisce il tempo. È importante, insomma, che sin da bambini ci si renda conto che, nella vita quotidiana, il suono ha una presenza fortissima che raramente viene avvertita.

      Quali nuove attività hai in cantiere?
      Ho ottantun anni e penso che per altri sette o otto anni potrò essere capace di fare cose sensate, se non lo sono è meglio non farle. Vorrei riprendere un po’ il materiale popolare e, dopo aver fatto un disco come “Addio Venezia Addio”, che registrai in presa diretta, pensavo di farne un altro allo stesso modo utilizzando canti popolare, trattati con la massima delicatezza e rispetto, ma anche con un’apertura. È una cosa difficile, perché rischi di fare una ripetizione pure e semplice del liscio… e qui ritorna un po’ il discorso che facevamo prima.
      Alessio Surian e Salvatore Esposito
      Gualtiero Bertelli – In giorni come questi (Nota, 2024)

      Si rinnova la pluriennale collaborazione fra Gualtiero Bertelli e le edizioni Nota: ottavo album in cui la parte testuale rimane corposa (42 pagine) e utile a “leggere” le canzoni raccolte nel CD, con un’ampia introduzione curata da Edoardo Pittalis. C’è stato tempo per far germogliare, raccogliere e sedimentare questi brani. Il risultato è un lavoro con registri narrativi e quadri sonori diversi, legati dall’inconfondibile vocalità e umanità di Bertelli e dal dialogo con il lirismo dei compagni di viaggio, dal controcanto del flicorno di Davide Boato (“In ‘sta cità”) ai cinque toccanti interventi di Michele Gazich al violino e alla viola. Completano il gruppo il violino di Stefano Olivan (già con Bertelli in “Il custode della miniera”), le tastiere e il basso di Luca Pulignano, e musiciste e musicisti con cui la collaborazione è più che ventennale: le voci delle “Streghe” Giuseppina Casarin e Cecilia Bertelli, le percussioni di Rachele Colombo, i fiati di Maurizio Camardi così come con le chitarre di Simone Nogarin, il pianoforte di Paolo Favorido e il contrabbasso (e violoncello) di Domenico Santaniello, in sezione ritmica insieme alla batteria di Marco Carlesso. Dodici musicisti per dodici canzoni con una inedita e variabile geometria sonora (dal settetto al duo) con cui Gualtiero Bertelli precisa e amplia le coordinate della sua cartografia musicale. Il cuore è sempre a Venezia, nella lingua veneziana, nei profondi cambiamenti subiti dalla città.

      A metà album, fra le pieghe finali di una canzone che prende la forma di un punto di domanda spunta un verso che si fa ago e cuce una trama ad abbracciare l’intero lavoro: “tra un mar che gera e un sielo che no xe” (tra un mare che era e un cielo che non è), la fotografia di una ricerca poetica e musicale specchio di maturità personale capace di trovare la giusta distanza senza allontanarsi, anzi, allacciando legami più stretti con i luoghi e le persone importanti. Non a caso, questa dimensione di profondità accompagna i versi che raccontano gli ultimi sguardi di un amico e la sua decisione di scegliere quando interrompere lo scorrere dei giorni, prima che quello scorrere diventi “snaturarsi”. Il rischio (o la costatazione) di perdere la propria natura offre una seconda chiave di lettura dei versi cantati, specie quando interrogano i giorni attuali, “tempo di capire che non abbiamo capito”. Questo lavoro consolida anche il rapporto con Michele Gazich: Bertelli aveva accettato l’invito a cantare “Ho incontrato Michele Straniero” nell’album realizzato da Gazich con Federico Sirianni “Domani si vive e si muore”. Ora Gazich interseca la voce del violino a quella di Bertelli già nel titolo d’apertura, “Vusto meter!”; rende palpabile, insieme al violoncello di Domenico Santaniello, il senso di “Assenza”; offre un puntuale controcanto in “Reoplani”, la necessaria tensione in “Streghe”, il giusto sostegno in “Ma chi te ga roba’” allo struggimento della voce e della fisarmonica, prima che rimanga sola e dolente a cantare la storia di “Teresina”. Chiudono l’album i versi (tradotti in italiano) scritti in latino oltre duemila anni fa da Sesto Aurelio Properzio: “Meglio felici o meglio allineati? (…) Questo amore è possibile”, con la fisarmonica a cesellare la melodia, accompagnata sommessamente dagli arpeggi della chitarra classica.
      Alessio Surian