Fausto Amodei canta Georges Brassens

Nonostante Fausto Amodei l’avesse registrato, a Torino già nel 1990, abbiamo dovuto aspettare ben trentuno anni perché il suo omaggio a Georges Brassens diventasse un disco ufficiale. E sicuramente senza Nota di Udine e la sensibilità dell’illuminato Valter Colle, già meritori nel 2000 del prezioso Brassens in friulano a cura del Povolâr Ensemble di Giorgio Ferigo, ciò non sarebbe ancora accaduto. Sono interpretate da solo con voce e chitarra queste ventitré canzoni e l’aspetto ritmicomelodico jazzato del repertorio originale viene assolutamente garantito da Amodei.

Aveva iniziato ad amarle sul finire degli anni Cinquanta, per poi iniziare a tradurne a decine negli anni successivi, nel pieno del periodo dei Cantacronache, utilizzando sia l’italiano che, nella maggior parte dei casi, il piemontese. Le ha eseguite per gli amici, dal vivo o offerte all’interpretazione della compianta cantautrice romana Raffaella De Vita. “Senza Brassens”, sostiene modestamente Fausto “avrei fatto solamente l’architetto”. L’essenzialità negli arrangiamenti e la sincerità dell’interpretazione sono tratti assolutamente comuni ad entrambi gli artisti. Senza dimenticare l’estrema attenzione nel tradurre a rispettare con rigore il numero di sillabe dei testi e la ferrea ricerca delle rime perfette nelle frasi. Per essere ancora più vicino all’originale, nelle versioni in piemontese, Amodei utilizza inoltre, il dialetto letterario dell’Ottocento e non il contemporaneo. Anche perché quest’ultimo non avrebbe potuto garantire un’adeguata traduzione della ricchezza del lessico di Brassens, che neppure dagli stessi Francesi è sempre di immediata fruizione. “Non si deve entrare in una canzone come dentro un mulino” sosteneva Tonton Georges. Troppi e disseminati ovunque sono i giochi linguistici, i rimandi colti alla storia o alla letteratura. Genialità, arguzie, acrobazie, equilibrismi rincorrono, cavalcano, solleticano le parole che danzano in questi capolavori. Pochi in Italia, per fortuna tutti mirabilmente, hanno potuto permettersi l’idea di tradurre degnamente Brassens, per cantarlo con rispetto. Già la traduzione è spessissimo una traversata lunga su un’onda inquieta, abbisogna di attrezzature che hanno a che fare con tempo e umiltà. E’ un praticato impuro, zeppo di scorie, dettagli minimi, imprevisti, sorprese e distanze talvolta abissali. Il confronto è con sé stessi, a salti e scavalchi. I punti appaiono così fragili che una traduzione potrebbe non essere terminata veramente mai. Lo scopo delle canzoni di Brassens non era di mettere in luce quello che lui pensava e men che meno di raccontare la propria vita, il suo “io” è quello del narratore più che quello autobiografico. Non utilizzava le canzoni come un diario, per sfogarsi e confidarsi pubblicamente ma per costruire piuttosto una realtà inventata e quel “io” il più delle volte, è ludico. Esprime un mondo fittizio che abita la sua mente, visto che ciò che lo circonda spesso non è proprio di suo gradimento. Le canzoni sono insomma, un pretesto per inserirvi tutto il suo amore per la poesia. “Ho orrore di viaggiare altrove che non all’interno della mia anima, passeggio nella musica e nelle parole: è la mia campagna e scrivo canzoni così, come altri vanno al mare”. Brassens è rimasto per Amodei un riferimento ed un amore musicale costante al punto di avergli dedicato nel 1999 anche una poesia dialettale, pubblicata su La Stampa e intitolata “Un poeta ch’as ciama Georges Brassens” (“Un poeta che si chiama George Brassens”) dove spiegava in versi, con un tono che vagamente ricorda Cesare Pavese, che per capire meglio quelle canzoni in francese è meglio intenderle prima in piemontese così si mescolano con il tuo sangue. Supportato dalla sua abilità musicale, Amodei coglie e ricrea nei testi, citazioni e doppi sensi in abbondanza, ambientando talvolta le vicende narrate in un’epoca differente oppure trasferendole, come uccelli migratori, da Parigi a Torino. Un po’ come l’amico Nanni Svampa aveva fatto con il milanese che gli offriva un lessico gallo-romanzo ricco di affinità al francese. Brassens è stato uno di quei rari casi di compositori francesi le cui arie potrebbero tranquillamente essere definite “tradizionali” e questo è uno dei più begli elogi che si possano fare ad un musicista. Per approfondimenti sono vivamentemente consigliati l’introduzione al CD “L’armonia tra le rime” di Mirella Conenna e i due volumi: “Fausto Amodei: Canzoni di Satira e di Rivolta” (2008) e “Georges Brassens: Il Maestro Irriverente” (2012), entrambi a cura di Margherita Zorzi.
Post scriptum bretone
Proprio quest’anno è il centenario della nascita di Georges Brassens, che iniziò la sua avventura al n° 54 di Rue de l’Hospice a Séte, nel quartiere popolare dove la Strada della Rivoluzione incrocia quelle di Libertà/Fratellanza/Uguaglianza. Lo chiamavano tutti “Jo”, perchè da quelle parti vanno pazzi per diminutivi e soprannomi. Il classicismo della forma delle sue parole oramai fa parte del paesaggio circostante, al pari di quello di Paul Valery. La Linguadoca ha avuto da sempre una vera predilezione per le strofette corte, dall’antico troubadour Bernard de Ventadorn al contemporaneo Claude Marti, passando magari da Charles Trenet, nato poco più di una sessantina di chilometri da Séte. Voglio immaginare però che alcune delle canzoni di Brassens siano state pure composte o pensate in Bretagna e precisamente a Lézardrieux, vicino a Paimpol, dove aveva acquistato nel 1971, una casa sulle rive del Trieux, nei pressi del porto. Un edificio alto, tradizionale e leggermente isolato, dalle persiane blu, che veniva chiamato la “Maison de Ker Flandry”. Quando arrivò in Bretagna la prima volta, verso la metà degli anni ‘50, “les Côtes-d’Armor” (Aodoù-anArvor) ancora si chiamavano “Côtes du Nord”. Aveva accompagnato Jeanne, proprio quella della canzone “La cane de Jeanne”, presso cui aveva vissuto tanti anni a Parigi, nella piccola casa all’Impasse Florimont, Paris XIV°. La donna doveva risolvere alcune questioni legate alle proprie origini familiari bretoni (era nata infatti, Le Bonniec). Brassens si recava in Bretagna generalmente in vacanza durante le estati ma talvolta anche in inverno dove apprezzava la poetica del grande poeta bretone in burrasca, Tristan Corbière. Qualcuno del luogo ricorda ancora di come si faceva spesso rassicurare dai vicini di non arrecare loro disturbo con il canto proveniente dalla propria casa e di come alla fine della bella stagione se ne andasse sempre lasciando due biglietti da 200.000 vecchi franchi: metà per la squadra di calcio e metà per gli anziani del paese. Così fece pure nella sua ultima estate, quella del 1981. Anche se in giro gli hanno dedicato strade, piazze, scuole, parchi, asteroidi, a Lézardrieux lo hanno sempre considerato semplicemente come “un vecchio cugino venuto da Parigi” con cui mangiare assieme e improvvisare qualche volta un “kenavo blues”.