“La ballata del carcere di Reading”, Umberto Orsini incanta Tindari
Nella serata dell ’8 luglio al Teatro antico di Tindari si è inaugurata nel sito archeologico greco la Rassegna 2023 del Festival “Tradizioni “ come meglio non si sarebbe potuto: un eccelso Umberto Orsini ha portato in scena, con la regia di Elio De Capitani, il meraviglioso testo di Oscar Wilde – composto dopo i due anni pesantissimi di condanna ai lavori forzati per omosessualità, intercorsa nel 1895, nel carcere di Reading, nel Berkshire – con una superba Francesca Breschi, allieva della bravissima Giovanna Marini, che ha degnamente sostituito la sua mentore nella esecuzione canora del testo in inglese, cinque originali ballate mariniane.
La sublime poesia wilderiana si fa ballata teatrale pervasiva. “Sold out” e spettatori letteralmente rapiti per una “pièce” che ha colpito dritto al cuore, ove ogni componente del tutto, dallo script wilderiano, pura poesia, all’interpretazione di uno dei grandi nomi del teatro (e non solo), scelto da compianti registi del calibro Visconti, Ronconi. Strehler, ad oggi insuperati, il talentuoso Umberto Orsini (che sul palcoscenico appare sempre come nel suo habitat naturale e non ha smarrito un grammo della sua maestria), fino alla regia composta e giustamente misurata di Elio De Capitani, è stato perfetto.
In scena solo due leggii e gli esecutori, ( entrambi di nero vestiti), il già menzionato Umberto Orsini e la dolce voce di Francesca Breschi, modulata quale nenia, che ha al contempo suonato, con identica grazia, l’organetto.
Soavi ballate, composte in inglese da una magistrale Giovanna Marini , che si sono armonizzate a tal punto con l’originale testo wilderiano, da chiedersi come sia potuto accadere… id est ha costituito gradevole sorpresa quella capacità di penetrare talmente la narrazione da produrre un prodotto artistico che parrebbe trarre genesi da Oscar Wilde stesso.
Il timbro inconfondibile orsiniano, la sua padronanza scenica, la bravura nell’utilizzare i vari registri disponibili…. hanno contribuito a rendere il momento davvero indimenticabile,e gli applausi scroscianti, al termine della rappresentazione, si sono trasformati in una “standing ovation” assolutamente meritata.
La storia che traspare dallo script è toccante: Wilde non mette il “focus” sulla propria condizione di prigioniero, piuttosto su quella di un detenuto, condannato alla pena capitale ( attraverso la forca) per aver ucciso la pur amata consorte. Una vicenda, di sotteso, però, personalizzata, che permette all’Autore di far menzione di una profonda verità: tutti quelli che ha amato sono stati colpiti dalle sofferenze, ed egli stesso ha riportato danni da chi ha amato. Si è anche allargato lo sguardo al valore delle pene, che non possono essere meramente afflittive, fino a degenerare in “ morte contro morte”, portando avanti un pensiero filosofico – esistenziale…ognuno uccide la “cosa” che ama, sia essa un essere vivente, un ideale, un’ambizione (tutti siamo dunque parimenti colpevoli, ma di certo non tutti paghiamo con la perdita della vita).
Ho avuto la fortuna di assistere alla “ mise en espace” di Pippo Del Bono, “ Urlo” che si riferiva parimenti allo script wilderiano e ha costituito punto di partenza della performance in recensione, che sta girando i teatri dal 2018, sempre con grande successo.
Mentre le luci si spengono e la magia cede il posto ad un silenzio significante, impreziosito dal valore dello spettacolo appena rappresentato, riecheggia nella mia mente l’interpretazione di U. Orsini nello sceneggiato “ I Fratelli Karamazov”, nei panni di un indimenticabile, cerebrale Ivan.
Umberto Orsini ha serbato intatta la forza istrionica e la passione esistenziale per il palcoscenico, non ha età, melius incarna i suoi personaggi, dalle sfumature composite, talchè potrebbe avere venti anni, come cento… e.non ce ne accorgeremmo di sicuro.
Il componimento poetico, lamento in prosa, ballata popolare propriamente, scritto dopo la scarcerazione dalla prigionia, il 18 maggio 1897, a Berneval-le Grand, in Francia, è stato pubblicato nel 1898 da Leonard Smithers, editore inglese tanto “coraggioso” da mantenere contatti con il genio oramai screditato.
L’Hotel chalet Bourgeat, del quale si conserva solo una targa a futura memoria, è stato dimora wilderiana durante la realizzazione artistica “de qua “, e poi interamente distrutto durante il secondo conflitto bellico.
La vita dei detenuti risulta dal pregevole script contrassegnata da malessere e orrori, una sorta di alienazione totale fatta di gesti ripetuti compulsivamente, volti a conservare la mera sopravvivenza, con profonda critica, dunque, al sistema penale vittoriano e ai paradossi di moralità dell’epoca.
Charles Thomas Woldridge, reo di aver tagliato la gola alla moglie con un rasoio, e dunque reo di omicidio, viene condannato all’impiccagione da uno Stato incapace di reintegrare alla vita sociale i malfattori, non in grado di esercitare una qualche forma di perdono istituzionale e praticare l’umanizzazione delle pene.
Giova ricordare che la visione estremamente estetizzante dell’immenso scrittore, poeta e aforista, nonché drammaturgo, giornalista e saggista, al secolo Oscar Fingal O’ Flahertie Wills Wilde, venne irrimediabilmente compromessa dopo l’accadimento – carcere, talchè il poema, dalla intitolazione originale “The ballad of Reading Gaol” è l’ultima Sua Opera e tocca vette di intensità drammatica altissime.
La pubblicazione iniziale avvenne sotto lo pseudonimo di C.3-3, riferibile al proprio numero nel campo di prigionia.
Non è direttamente incentrata sulla personale tragica esperienza (che tuttavia ben traspare e connota lo strepitoso testo) ma sugli incontri con gli altri “sciagurati”,in special modo con Wooldridge, al quale l’Autore dedica l’Opera.
La descrizione del personaggio è sublime, dall’aspetto alle emozioni sottese, a quella sua inspiegabile allegria, al suo saper ancora godere del tempo a disposizione, alla sua indifferente soddisfazione, incomprensibile dall’esterno, mano a mano che si avvicina il giorno della esecuzione.
La parte concernente la tomba scavata per accogliere il corpo defunto del condannato, così come quella riguardante il suo funerale sono magistrali… non esiste più la speranza, tutto è oscuro e intriso di paura, e l’ombra della morte fa sì che non si riesca più a intravedere neppure “quel lembo di azzurro che in carcere chiamano cielo”. Sono solo possibili riferimenti al Cristo, ma umano..troppo umano. L’ultima stanza della ballata riprende il refrain fondamentale, divenuto celeberrimo, id est”And all man kill the thing they love”.
In conclusione ,un incipit al Teatro tindaritano davvero di grande effetto, che pone le giuste basi di un degno prosieguo delle rappresentazioni in programma ,tutte di qualità indiscussa, mettendo in luce il valore del Direttore artistico, Tindaro Granata, che già nella pregressa Rassegna ha dato ottima prova delle sue capacità di mettere il focus su testi, interpreti e registi meritevoli, in grado di proporre tematiche etico-sociali di rilievo e di scegliere una squadra di eccellenti collaboratori, e location diversificate in guisa da rispondere ad una logica sensata. Chapeau…e alla prossima rappresentazione.