Loris Vescovo – Adalt

Sono passati otto anni da quando Loris Vescovo vinceva la Targa Tenco come miglior album in dialetto con “Penisolâti”. Adesso, il cantautore friulano torna (accompagnato da Leo Virgili a chitarre elettriche, glockenspiel, xilofono, tastiere, basso e samples, da Massimo Silverio al violoncello, da Nicholas Remondino a batteria e percussioni, e suonando lui stesso chitarra acustica, guitalele e guzheng) con un nuovo capitolo della sua avventura discografica, ideale conclusione della altrettanto ideale trilogia “della terra”, come la definisce lui stesso, aperta da “Borderline” e proseguita, appunto, col già citato “Penisolâti”. Se il primo si muoveva lungo confini ed argini, ed il secondo esplorava margini e coste, questo ritorno segna, fin dal titolo- traducibile con “in alto, “al di sopra”- un distacco dalla bidimensionalità geografica, raccontando di altezze e verticalità. L’inizio è affidato a “I toi cjamps” ed alle sue nuances dal sapore desert blues, con un pattern ritmico sabbioso a sorreggere gli arpeggi della chitarra acustica, i contrappunti del guitalele e del guzheng a distillare note e colori. È sempre una figurazione ritmica tesa e nervosa a sostenere “Criptografiis” (“Privatizât libars balâs/ intun resort a ponts/ cristâi licuits, ve i gnûfs vuardians!/ tirant rêts par colomps/ Jo buti vie le password,/ deventais ùe, e jo volp/ feveli lenghis muartis/ us sconet di me di colp”, “Dopo aver privatizzato il libero danzare/ in un resort a punti…/ i cristalli liquidi, ecco i nuovi guardiani!/ tendendo reti per colombi// Io butto via la password/ voi diventate uva, ed io volpe/ parlo lingue morte/ vi sconnetto di colpo”), brano sporcato da spruzzate di elettronica, acquosi fraseggi di xilofono e improvvisi squarci di violoncello. Ad accompagnare “Sotans” (“Piardûts sin pai capanons/ sin dentri a spedî pacons/ ma al sudôr sul carton codiçs scrivarà/ che e disaran: “ducj o sin sot paron”, “Siamo persi nei capannoni/ siamo chiusi dentro a spedire grandi pacchi/ ma il sudore scriverà codici sul cartone/ che diranno: “tutti siamo sotto il padrone””) troviamo, anche in questo caso, un bell’incastro fra arpeggi e fraseggi, fra chitarra acustica e guitalele, poggiati su una ritmica asfissiante, incupita dagli interventi del ritornello e dai fraseggi acidi della chitarra elettrica, perfettamente centrati nell’atmosfera dura e ruvida. “Dome” è avvolta da un languido tappeto di sintetizzatori, su cui si snoda un morbido arpeggio di chitarra acustica, con le aperture del violoncello ed i piatti della batteria a colorare paesaggi sonori altissimi e cristallini. Giro di boa del disco è “Nô ce vino piardut”, scossa dall’andamento ondivago dei suoi arpeggi e da una ritmica quasi militaresca, con l’ingresso di una slide a strappare la dinamica. “Riff Raff (orazion pajane)” (“Ogni dì e plovin clostris,/ sporcs di ingjustris digjitâi/ mole Raff, mil mongolfieris,/ rogazions, sofles, in svuâi/ Osanna adalt tai cii”, “Ogni giorno piovono catenacci/ sporchi di inchiostri digitali/ libera tu Raff mille mongolfiere/ rogazioni/ soffioni, in voli// Osanna nell’alto dei cieli”) gioca, ancora una volta, sull’incontro fra l’elettronica, che disegna gran parte del paesaggio sonoro del pezzo, e la dimensione più acustica, con gli arpeggi del pianoforte a spianare la strada ad un crescendo ritmico che si snoda lungo una batteria tuonante ed un violoncello ostinato. A sorreggere “A plomp” sono colori misteriosi e rarefatti, con una elettronica a tratteggiare toni scuri, un paesaggio ritmico incerto e zoppicante e gli arpeggi nebbiosi della chitarra acustica ad incontrare le svisature distorte della chitarra elettrica. Sono sempre degli arpeggi di chitarra, poggiati sulle terse trame dell’elettronica e sui pizzicati del violoncello, ad accoglierci su “Sontga Margriata”, canzone che, nella sua linea vocale salmodiante, omaggia la tradizione culturale alpina, traducendo in friulano un canto popolare, tramandato oralmente, nella lingua retoromancia della Surselva. La title- track si muove lungo gli arpeggi del guzheng, dinamizzati da una sezione ritmica quasi tribale, con un basso marcato ed asfissiante, mentre i fraseggi della chitarra acustica e gli strappi del violoncello contrappuntano il tutto. A chiudere il lavoro ci pensa “Perdonaimi” (“Tal infinît e tal eterno, us sint,/ e tal amôr, e tal dolôr/ Ma no sierât/ tune frede,/ cjase di piere”, “Nell’infinito e nell’eterno, vi sento, /e nell’amore, e nel dolore// Ma non rinchiuso/ in una fredda casa di pietra”), brano- tratto da un componimento della poetessa udinese Francesca Marini Barnaba- in cui gli arpeggi della chitarra acustica fanno da sfondo per i volteggi del violoncello, e che sfocia in un delirante intermezzo strumentale, fra percussioni secche e nervose, elettronica polverosa e archi che aprono, per chiudere con un finale a tinte sgargianti. In conclusione, con questa nuova prova da studio, Loris Vescovo si conferma come uno dei più colti e raffinati interpreti della già fertile tradizione musicale friulana, elegante narratore di una “non- terra”, chè le sue storie sono grammatica collettiva, in due parole: cantastorie purissimo.