Voci dai campi di prigionia
di Alessia Pilotto – Il Gazzettino 02/11/2018
Ci sono le canzoni rivolte all’amata e i saluti per la mamma, ma anche la nostalgia per la propria terra e le critiche alla guerra. I Lautarchiv di Berlino e il Phonogrammarchiv di Vienna hanno restituito un corpus emozionante di registrazioni sonore e materiali documentari dei militari italiani detenuti nel 1918, si possono sentire le parole e le melodie di 41 giovani soldati
LA TESTIMONIANZA “Uccelli che volate, avete visto il mio amore? E che notizie mi portate?”, cantava il sardo Giuseppe Loddo. Un canto che arriva dalla distanza di un secolo e parla d’amore, certo, ma anche di libertà. Perché Loddo, che prima della guerra era un contabile in una fabbrica di maccheroni di Fonni, registrò quella canzone il 25 marzo del 1918, mentre era prigioniero nel campo di Limburg an der Lahn in Germania e per lui, forse, quegli uccelli significavano anche la possibilità di andarsene dal luogo in cui era rinchiuso, la possibilità di riavvicinarsi agli affetti lontani 1.500 chilometri da dov’era. La sua voce riemerge ora dalla storia e come la sua, quella di altri 41 militari italiani provenienti da Friuli Venezia Giulia, Veneto, Campania, Calabria, Sicilia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria, più un esponente della minoranza arbëreshë del Molise. Sono voci che, dal punto di vista strettamente scientifico, ci riconsegnano uno spaccato etnografico dell’Italia di inizio Novecento; prima di tutto, però, quelle voci colpiscono perché hanno un significato molto più profondo: dopo cento anni da quelle registrazioni che le hanno fissate sui cilindri di cera, richiamano prepotentemente alla nostra coscienza le persone a cui appartenevano e restituiscono individualità (e concreta e dolorosa realtà) a gente comune – i nostri nonni o bisnonni – finita prima in trincea a difendere i patri confini e poi nei lager.
CANTI E FILASTROCCHE È una testimonianza emozionante, quella emersa dai Lautarchiv di Berlino e dal Phonogrammarchiv di Vienna che hanno restituito alla conoscenza un corpus di registrazioni sonore e materiali documentari dei militari italiani detenuti nei campi di prigionia nel 1918: ci sono i dati anagrafici di quegli uomini, ma soprattutto i canti popolari e le filastrocche di ogni angolo d’Italia, da Udine a Palermo, che la Commissione Fonografica Prussiana faceva cantare loro davanti ad un grammofono. Il siciliano Giuseppe Liotta, all’epoca ventiseienne ex carpentiere, intonò una canzone di galera: “Amici amici che andate a Palermo, salutatemi la bella città, salutatemi parenti ed amici e pure quella vecchietta di mia madre”: difficile pensare che si sia trattato di una scelta casuale. Albino Dresda, nato a Verona nell’ottobre del 1884, aveva trentaquattro anni quando nel marzo del 1918 cantò due brani nel cilindro del grammofono, nel campo di prigionia di Limburg. La sua scheda dice che aveva frequentato la scuola elementare, parlava un po’ di tedesco, aveva fatto il panettiere, conosceva la musica e nel lager suonava la tromba. Dai dati dell’Archivio di Stato di Verona, si dice anche che era alto 1,54 metri, aveva capelli lisci e castani, aveva fatto il portinaio ed era stato preso a Caporetto. Le sue due incisioni sono “Un bel giorno” e una versione rivisitata di “Sul ponte di Bassano”: evocazione dei paesaggi di casa, ma che nei sottotesti rimandano anche al tema dello smarrimento e del desiderio. Anche il friulano Guglielmo Sommero, mattonaio nato a Sammardenchia nel 1892 (aveva studiato pure in Austria, dove aveva vissuto tra i 7 e i 20 anni), ha cantato la casa, scegliendo il brano “O ce biel cjstiel a Udin” (O che bello il Castello di Udine), e la lontananza, con “Tu là vie, tu là vie e jo ca vie” (tu laggiù, io qua): coscientemente o meno, dietro quelle strofe i prigionieri ci tramandano l’eco della loro situazione, dei loro pensieri e delle loro emozioni.
CONTRO IL CONFLITTO Esplicitamente, invece, manifestavano l’avversione per quel conflitto: i soldati italiani internati a Limburg “maledicevano la guerra senza eccezione” scriveva in una lettera il romanista Hermann Urtel, membro della commissione. E tra le registrazioni a più voci (anonime), c’è anche quella del brano “Il general Cadorna se n’è sortito pazzo, la meglio gioventù la fa morir sul Carso”. Frequentando i detenuti, gli esperti austriaci si erano anche fatti un’idea dei caratteri “regionali”: «Gli italiani del Nord si distinguono per carattere in modo sostanziale da quelli del Sud – raccontava Urtel -. Il lombardo, il piemontese, il nativo delle valli alpine orientali erano introversi, diversamente dagli abitanti della pianura padana. Da questi ultimi abbiamo ricavato canzoni comiche e umoristiche. Di carattere squisitamente lirico erano le canzoni d’amore, piene di nostalgia, dei romagnoli dai dintorni di Ferrara. I toscani si sono distinti per lo spiccato talento attoriale e lo stesso vale per i cittadini romani”.
DUE GIORNI CON GLI ESPERTI Nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della fine del primo conflitto mondiale, l’Università di Udine dedica ora a questo corpus un convegno che, oggi e domani, riunirà studiosi tedeschi, austriaci e italiani nel capoluogo friulano, che allora fu sede del comando italiano sul fronte. Si intitola “Le voci ritrovate” ed è lo stesso titolo del volume di Ignazio Macchiarella ed Emilio Tamburini, edito da Nota e corredato da 4 cd che ripropongono quelle registrazioni: «Già nel primo 1800 – racconta Valter Colle, l’editore della pubblicazione -, le guarnigioni erano tenute a raccogliere i repertori di lingue, musiche e tradizioni delle popolazioni che confinavano con l’Impero austro-ungarico. Poi, dopo l’invenzione della registrazione, lo stesso kaiser volle creare una commissione apposita, formata da esperti linguisti, etnologi e storici che registrarono canti, filastrocche e modi di dire dei prigionieri. Si pensava che queste registrazioni fossero andate perse durante i bombardamenti di Berlino, invece negli anni ’90 sono stati ritrovati a Vienna e restituiti alla capitale tedesca». «Ascoltando i documenti – racconta l’esperto – si ha un primo campione, innovativo per i tempi, di quello che era il popolo italiano, di chi stava in trincea: capiamo che l’Italia era solo sulla carta ed emerge che l’unico repertorio comune tra le varie regioni era quello religioso. Per questo, come testo di confronto, la commissione ha usato la parabola del figliol prodigo. Dopo il convegno, pubblicheremo un altro volume con i risultati emersi e stiamo cercando i discendenti di quei prigionieri per ricostruire anche le vicende successive».