Armandino Liberti, poesia e voce di un’utopia proletaria

(Pop)olare Un libro/cd, «Noi de borgata», per la prima uscita della nuova serie della collana I giorni cantati

di Alessandro Portelli – il manifesto

Nelle ultime dieci righe del suo supplemento alla riedizione della monumentale (627 pagine) Storia della canzone romana di Giuseppe Micheli (Newton Compton, 2005), Gianni Borgna prende atto dell’esistenza di Armandino Liberti. Insieme con un altro dei pilastri della storia del Circolo Gianni Bosio, Silvano «Cicala» Spinetti di Genzano, lo esorcizza collocandolo nella categoria che chiama «post-canzone»: una canzone che esce «dai limiti imposti dall’industria discografica» ma che non può dirsi «popolare» proprio perché è difficilmente in grado di essere conosciuta e fatta propria dal popolo proprio perché, come avrebbe detto Gramsci «conforme alla sua maniera di pensare e di sentire».

Sono successe molte cose da quando Borgna scriveva quelle righe un po’ paternalistiche, e la canzone romana ha avuto una vita e una crescita allora impensabili. Ma è giusto che la storia della canzone romana, se non finisce con Armandino Liberti, almeno faccia tappa da lui e trovi altra forza nell’ascoltarlo. Ora, al di là delle etichette – «post-canzone», «popolare» – su due cose Borgna aveva ragione: le canzoni di Armandino Liberti sono rimaste sconosciute al pubblico musicale e, soprattutto, sono «conformi alla maniera di pensare e di sentire» del mondo popolare precisamente perché a quel mondo apparteneva Armandino e in tutte le sue canzoni si sforzava sia di rendergli omaggio, sia di cambiarlo.

Armandino Liberti (Roma, anni 70), foto di Susanna Cerboni

PARTIAMO dal dato più materiale, concreto: la voce. In Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini descrive un paio di volte, di sfuggita ma con precisione, la voce dei suoi personaggi di borgata: una «voce bassa e rauca», una voce «sbrozzolosa». La voce di Armandino Liberti è precisamente così, «sbrozzolosa» sia in senso letterale, sia, soprattutto, in senso metaforico: la voce orale, poetica, musicale, politica, di Armandino Liberti non è una voce che cerca di piacere, non è una «bella voce» ma una voce ruvida, urticante, che – come altre, più celebri ruvide voci, da Tom Waits a Bob Dylan – non canta tanto pe’ canta e pe’ fa’la vita meno amara, ma canta per dirci qualcosa e per dare voce a tutte le amarezze generate da una società che sfrutta ed emargina lui e quelli come lui.
Infatti la sua canzone più conosciuta, Noi de borgata, è una risposta arrabbiata a un’altra voce romana, ruvida ma consolatoria. A Franco Califano, che in Semo gente de borgata cantava «stamo mejo noi che nun magnamo mai», come prefigurando quell’odierno ministro secondo cui i poveri mangiano meglio dei ricchi, Armandino Liberti risponde ricordando che il «magna’» glielo procura sua madre andando a servizio nelle case dei ricchi; a Califano che sperava nei «tanti modi pe’ sfonna’» tirandosi fuori dalla borgata individualmente, Armandino Liberti risponde evocando una giustizia «popolana» che restituisca libertà e dignità a tutti insieme.
C’è un classico spiritual afroamericano che parla di un treno «bound for glory», che va verso la gloria, verso il paradiso. Questo treno, dice la canzone, porta solo i giusti e i santi, non porta ladri, puttane, imbroglioni … Bruce Springsteen se ne impadronisce e la cambia: «questo treno porta santi e peccatori, porta sconfitti e vincitori, porta puttane e giocatori» – sul treno per la gloria c’è posto per tutti. C‘è posto per tutti, operai e puttane, ribelli e magnaccia, anche nel «treno» poetico di Armandino Liberti che viaggia verso un’utopia proletaria fondata sul lavoro: «La borgata allora s’arisana col lavoro e nella libertà».

Testi che raccontano le amarezze generate da una società che sfrutta

FACCIAMOCI caso. Da dove viene quella strana espressione, «s’arisana»? Non viene dal basso, dal linguaggio della borgata; è piuttosto l’appropriazione popolare ironica di una parola del lessico sociologico e burocratico che pensa alla borgata come una malattia da risanare. Armandino Liberti rovescia il significato del termine: la borgata allora s’arisana, si risana non come dite voi, col decoro urbano e qualche aggiustamento di facciata, ma come diciamo noi, con la giustizia, col lavoro e nella libertà. Anche qui, attenzione: non è il risanamento che rende la borgata degna di libertà, ma è la libertà che risanerà tutti, ladri e magnaccia compresi. Quando saremo liberi saremo risanati.

Armandino Liberti veniva dallo stesso mondo di Tommasino di Una vita violenta: «so’ fanello e so’ de Pietralata», e era comunista come diventa lui alla fine. Segue quasi lo stesso percorso: «co’ la vita me ce trovo a tu per tu», la traiettoria del ragazzo di vita, i piccoli furti, le «lenze della strada» (il Lenzetta di Una vita violenta), la povertà, l’emarginazione, la galera – fino alla visione di speranza e di riscatto che Pasolini incarnava in un «pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito».

Ma se nei romanzi di Pasolini la borgata è un mondo escluso, nei suoi brani è in relazione /contrasto, conflitto con altre istituzioni e altri strati sociali

TUTTAVIA, c’è una differenza. Nei romanzi di Pasolini, la borgata è un mondo escluso: i ragazzi di vita percorrono tutta la città, ma la città non viene mai in borgata. Nella canzone di Armandino Liberti, invece, la borgata è fin dall’inizio in relazione – contrasto, conflitto, invasione, esclusione – con altre istituzioni e altri strati sociali: non è un mondo auto escluso ma un mondo dominato, il prodotto di una rete di relazioni di potere. Si comincia dalla prima strofa: «e da quando la scòla m’ha cacciato»; poi si continua con la «litania» propagandistica dei media, l’intrusione missionaria di «preti, bizzoche e fiji de papà«: e il conflitto fra la borgata e il mondo fuori di essa culmina nell’ultima strofa: la maledizione a «questurini, giudici, avvocati»../ cani fedeli alle istituzioni» alla «gente bene, onesta, colta, raffinata» che si nutre delle miserie della borgata.
In questo senso, vale la pena di ritornare sull’altro suggerimento di Gianni Borgna: le canzoni di Armandino Liberti come «post-canzone». Non è chiarissimo che cosa intendesse Borgna; ma non c’è dubbio che molte di queste composizioni vanno al di là del modello di canzone a cui siamo abituati. Tutto sommato Noi de borgata è tra le più semplici, tra le più lineari, strofa dopo strofa come nelle ballate narrative tradizionali. In tanti altri brani invece non c’è un’idea sola, un tema musicale solo, una voce sola, un solo registro linguistico; e non si tratta solo dell’alternanza strofa-bridge della canzone di consumo ma di un gioco – uno scontro, un dialogo, un intreccio – di linguaggi e di voci. In un brano come Omicidio bianco la voce narrante in un italiano essenziale, quasi giornalistico si confronta con quella dialettale del bambino che chiede del padre che non torna (e lo spazio aperto, pubblico del cantiere contrasta con quello intimo di una cucina di borgata). Se di post-canzone si tratta, dobbiamo pensare piuttosto alla sceneggiata napoletana, pronta a trasformarsi in teatro: il dialogo c’è sempre, esplicito come in Servo e padrone, implicito nella dinamica fra i registri linguistici come figura dei rapporti di classe (e al teatro, alle maschere, rimanda anche il senso dell’umorismo che attraversa tante di queste canzoni, dallo sberleffo del Dispettoso all’autoironia di Mo’ la machina ce l’ho.
Ho detto che Noi de borgata è una delle meno teatrali fra le canzoni di Armandino Liberti. Eppure, anche qui le voci e i soggetti sono più d’uno: la parole del maestro, per esempio, sono riprodotte direttamente, come in un copione teatrale. Ma soprattutto, nell’ultima strofa Armandino Liberti si rivolge direttamente, in un dialogo implicito, ai «pilastri primi» di questa società – come se tutta la sua storia l’avesse raccontata a loro, destinatari impliciti, coro muto ai margini della scena. Ascoltando adesso queste canzoni, è bene non dimenticare che hanno almeno mezzo secolo di storia, e tante cose sono cambiate. E forse, guardandoci in faccia, ci dovremmo domandare chi sono e dove stanno quelle persone colte e perbene contro cui si rivolge la rabbia diventata informe di una borgata dove quello straccio rosso non sventola più.

* uno dei saggi presenti nel libro/cd «Noi de borgata» (prima uscita della nuova serie della collana I giorni cantati prodotta dal Circolo Gianni Bosio e dall’editore Nota). 


  • Acquista qui il Block Nota
    Noi de borgata. Le canzoni di Armandino Liberti